Casella di testo: Roberto Sorgo                                                                                                   Pagina iniziale > Articoli > Traduttori

TRADUTTORI TRADITORI

 

 

Il termine giapponese aware indica «il sentimento di dolcezza e malinconia generato dalla bellezza effimera», come quando si osserva un fiore di ciliegio perdere i petali. Il tedesco Schadenfreude sta a significare «la gioia maligna che si prova nell’osservare le disgrazie altrui». La lingua russa ha una quarantina di parole che significano «andare», mentre l’eschimese ne ha decine per indicare i vari tipi di ghiaccio.

Ogni lingua ritaglia la realtà in modo diverso, per cui riprodurre un enunciato in un’altra lingua (tradurre) non è sempre facile, soprattutto se si tratta di concetti astratti che indicano particolari situazioni individuali o collettive di cui i parlanti di altre lingue non sono a conoscenza.

 

Fumata grigia — Per citare un esempio che riguarda l’italiano, se un giornale riferisce che una riunione politica, in cui si doveva prendere una certa decisione, si è conclusa con una «fumata grigia», come si può rendere questa espressione in un’altra lingua? Una traduzione letterale non avrebbe senso; allo straniero bisognerebbe spiegare che durante il conclave per eleggere un papa viene emessa una fumata nera se al termine della giornata non si è arrivati all’elezione, e una fumata bianca quando invece il papa è stato eletto. E poi che noi italiani siamo maestri nel fare le cose a metà, per cui se in una riunione si decide qualcosa ma non tutto possiamo metaforicamente comunicarlo con una (inesistente) fumata grigia.

Tradurre pertanto richiede una profonda conoscenza non solo della lingua da cui si traduce ma anche di usi, costumi, mentalità del popolo che parla tale lingua, nonché del contesto in cui si inserisce la comunicazione. Tuttavia la situazione non è proprio disperata. I casi di parole ed espressioni intraducibili sono in realtà piuttosto rari; la traduzione è un evento quotidiano e non presenta particolari difficoltà.

 

Stranezze — Ogni tanto però si incontrano notevoli stranezze. In alcune lingue ci sono parole lunghissime; tanto per menzionare un caso semplice, in tedesco Unfallversicherungsgesellschaft è una «compagnia di assicurazioni contro gli infortuni». Anche in finlandese ci sono parole composte molto lunghe, alcune addirittura palindrome, si possono cioè leggere allo stesso modo anche al contrario, come saippuakivikauppias, «venditore di sapone», o saippuakuppinippukauppias, «commerciante di portasapone».

All’estremo opposto ci sono parole trascritte con un’unica lettera: in birmano, u significa «zio» ma può anche indicare un uomo di oltre 45 anni; in coreano, i significa «dente»; in jacuto, lingua siberiana, m significa «orso» o anche «spirito ancestrale».

 

Perifrasi — Queste parole curiose non presentano però difficoltà nella traduzione. Vi sono invece dei termini che, come si diceva più sopra, sono strettamente legati alla cultura locale e non hanno quindi un corrispettivo in altre lingue; bisogna pertanto ricorrere a lunghe perifrasi per renderne il significato. Un esempio divertente è il giapponese yokomeshi. Letteralmente, meshi significa «riso bollito» e yoko vuol dire «orizzontale», per cui insieme significano più o meno «riso mangiato in posizione orizzontale». È così che i giapponesi definiscono il particolare disagio indotto dal parlare una lingua straniera: yoko è un riferimento umoristico al fatto che il giapponese di solito si scrive dall’alto in basso, mentre le lingue straniere sono perlopiù scritte orizzontalmente.

 

Intraducibile — Esistono parole davvero cariche di significato. Un sondaggio che ha coinvolto un migliaio di traduttori di tutto il mondo ha proclamato il termine ilunga, della lingua chiluba parlata nel Congo, la parola più intraducibile del mondo. Descrive «una persona disposta a perdonare una trasgressione una prima volta e poi a tollerarla una seconda volta, ma mai una terza volta».

 

Errori — Ad assillare i traduttori non sono però tanto le parole intraducibili quanto gli errori di traduzione, sempre in agguato. Nelle migliaia di libri che vengono tradotti e pubblicati ogni anno in Italia si osservano talvolta strafalcioni che fanno accapponare la pelle. Ancora peggio va col doppiaggio di film e telefilm inglesi o americani, dove spesso si commettono errori madornali, come compass tradotto «compasso» anziché «bussola» o sensible reso con «sensibile» anziché «sensato». E sono parole che si trovano in qualsiasi dizionario, oltre a essere di uso comune. La colpa non è certo dei doppiatori (bravissimi) ma di chi ha tradotto il testo.

 

Cammello — Tuttavia gli errori di traduzione ci affliggono da secoli. Un esempio celebre si ha nella versione latina del Nuovo Testamento (la cosiddetta Vulgata), curata da San Girolamo nel IV secolo. Qui probabilmente vi è stato un equivoco nella trasmissione delle parole originarie di Gesù (in aramaico) con la confusione tra due termini simili, uno con il significato di «cammello» e uno con quello di «gomena», grossa fune usata per l’ormeggio delle navi, analogamente all’arabo moderno jummal, «cavo, cima» per imbarcazioni, che nella scrittura può essere confuso con jamal, «cammello». Il riferimento a un grosso cavo usato per le barche aveva molto più senso, sia per l’ambiente di pescatori da cui provenivano i primi seguaci di Gesù, sia per l’accostamento alla cruna dell’ago. Nel testo evangelico greco si è usato, o forse inventato, il termine kámilos col significato di «grossa fune», ma nella traduzione latina di Girolamo si è interpretato il termine come kámelos, dando origine al famoso «cammello» che non passerebbe per la cruna dell’ago.

 

Le corna di Mosè — Quella splendida opera che è il Mosè di Michelangelo, al pari di numerose raffigurazioni analoghe, mostra Mosè con due corna sulla fronte, ma non è un riferimento a infedeltà coniugali. C’è di nuovo lo zampino del nostro Girolamo, che aveva sì studiato l’ebraico per tradurre la Bibbia dai testi originali, ma evidentemente la sua conoscenza non era così approfondita. Infatti nei versetti dell’Esodo (34,29-30) in cui Mosè torna dopo avere ricevuto le tavole della Legge viene detto che dal suo volto escono dei «raggi», ossia ha il volto raggiante. La stessa parola ebraica kèren che significa «raggio» può voler dire anche «corno» e Girolamo traduce in latino cornua. In questo modo Mosè è diventato cornuto. Dopo simili prodezze San Girolamo è diventato il patrono dei traduttori.

 

Presepe — Pure il bue e l’asinello del presepe hanno subìto qualche assalto da parte di traduttori sbadati. Un passo del libro di Abacuc (3,2), nella versione greca dei Settanta, veniva interpretato erroneamente «ti manifesterai fra due animali» quando si intendeva invece «fra due epoche». Oggi quel brano viene reso in maniera molto diversa.

Una traduzione sbagliata si riscontra nella messa cattolica, in cui si invoca l’Agnello di Dio usando l’espressione «che togli i peccati del mondo». Nella versione latina si diceva qui tollis peccata mundi, dove però qui tollis significa «che sopporti» i peccati. L’errore è presente anche in altre lingue; per esempio, nella liturgia inglese si dice «you take away the sins».

 

Crepuscolo — In un contesto fra il religioso e il mitologico, un esempio è il celebre «crepuscolo degli dèi». La svista va imputata questa volta ai traduttori tedeschi, che resero con Götterdämmerung («crepuscolo degli dèi») il termine nordico Ragnarök. La parola rök, il cui significato è «fine, crollo, caduta» o anche «destino, fato», venne confusa con røkkr, «crepuscolo». Bisogna dire che l’immagine del crepuscolo è molto più poetica e questo forse riabilita un po’ gli autori della fortunata (benché errata) espressione.

 

Cenerentola — Nemmeno il mondo delle favole si salva dai malvagi traduttori traditori. Chi non ricorda la scarpina di vetro di Cenerentola, nell’omonima fiaba di Perrault? Ebbene la scarpina in questione, diventata addirittura di cristallo nella versione disneyana, in francese non era affatto di verre («vetro»), bensì di vair: si pronuncia allo stesso modo, ma significa «vaio», che è la pelliccia dello scoiattolo siberiano. Sicuramente un materiale pregiato, ma niente a che fare col vetro. E ancora, in un altro contesto, perfino i marziani sono nati da un errore di traduzione (se ne parla nell’articolo Extraterrestri).

 

Paradiso — Un’espressione odierna che trae origine da un errore di traduzione è «paradiso fiscale». Dovrebbe riprodurre l’inglese tax haven, ma nel rendere il concetto in italiano si è confuso heaven, «cielo, paradiso», con haven. Quest’ultimo termine è da collegare al tedesco Hafen, «porto», e in senso figurato significa «asilo, rifugio». A proposito di rifugi, spesso sui giornali si legge di qualche «santuario» di guerriglieri o terroristi; il termine inglese sanctuary però indica in questo caso un semplice «covo, rifugio, luogo protetto».

 

Psicologia — In psicologia è emersa in anni recenti una nuova parola: empatia. Il termine ricalca l’inglese empathy, coniato su radice greca per tradurre il tedesco Einfühlung, che compariva nei testi di psicologia e di cui non esisteva in inglese una traduzione soddisfacente. In italiano, però, la traduzione di Einfühlung esiste ed è «immedesimazione». Così quando i testi di psicologia venivano tradotti dal tedesco si parlava di immedesimazione, mentre da quando si è preso a tradurre soprattutto dall’inglese è comparsa questa empatia di cui non si sentiva il bisogno.

Meglio concludere questa breve rassegna prima che i traduttori vadano incontro a un’ulteriore riduzione della propria autostima, parola che a sua volta è una recente acquisizione nel novero delle traduzioni scadenti. Il termine rende infatti pedissequamente l’inglese self-esteem, che indica un sentimento a noi già noto da tempo e chiamato amor proprio.

 

 

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